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Chi sono

E il gioco aveva inizio. A renderlo per nulla ovvio, c’era qualcosa di inusuale, che tutti potevano utilizzare nel momento più opportuno. Qualcosa che avrebbe richiesto, a chi ne avesse voluto fare uso, il coraggio a svelarsi: sbucare dalla propria tana, alzare le mani al cielo, gridare a voce ferma: « Arimo ! »

Mario Rosso in arte Arimorosso

Da bambino, coi compagni di cortile, si giocava spesso in grandi spazi aperti. Il Boschetto era uno di questi come la Piazzetta antistante al palazzo popolare e a quello degli impiegati della Provincia. Si passavano interi pomeriggi a radunarci e a chiamarci, dapprima a coppie, poi a gruppetti, dismettendo e re-inventando il gioco del momento, ogni volta che si presentava l’occasione di aggregarsi vicendevolmente. Il cominciare daccapo lo cambiava in uno apparentemente più accattivante e coinvolgente, dai marcati toni di sfida, senza che la noia ne adombrasse il corso.Non c’era solo la partita di pallone! I maschi passavano ore e ore al gioco dei noccioli (di pesca), a scambiarsi figurine della Panini o a contendersele a muretto. Quando il gruppo assumeva i caratteri di un’allegra masnada, si pianificavano vere e proprie missioni, nei cantieri del quartiere, allo scopo di sottrarre canaline – quelle in uso agli elettricisti - per ricavarne sofisticate cerbottane.

Giocare a cerbottana non era solo un modo di simulare il gioco della guerra, ma diventava occasione per far mostra della propria arte manipolativa, nella costruzione dell’arma da lancio ad aria e delle frecce. Le frecce erano di carta e il loro calibro variava in base alla materia prima con cui si fabbricavano. Dalle pagine dei Topolino in disuso si ottenevano frecce piccole, leggere, adatte per tirare a breve distanza; da quelle di Tex, frecce più lunghe e pesanti, formidabili per colpire bersagli lontani. Le pagine erano tagliate accuratamente a strisce, portate alla cintola e avviluppate, all'occorrenza, con arte, in solide punte. Prima di essere caricate, si portavano alle labbra per assottigliarle e levigarle con la saliva, allo stesso modo di un pezzo lavorato al tornio. Infine, si tirava con tutto il fiato a disposizione.

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Le femmine, al contrario, trascorrevano il tempo organizzando tornei di Elastico, giocando ininterrottamente a Settimana oppure ad Arancia, limone, fragola e mandarino. In tal caso ne intonavano la filastrocca con veloci giri di corda. E ad ogni giro, cadenzava uno schiocco, simile a quello di un disco in vinile che salta. Davano vita anche a mercatini di quartiere, inscenando, simbolicamente, vendite e acquisti di prodotti vari, con pietre, foglie, rametti e oggetti tra i più disparati, come a rimarcare una certa spiccata propensione agli affari: arte non paragonabile a quella di una partitella di pallone! Se accadeva di ritrovarci numerosissimi, senza preclusione di genere, giocare a Nascondino metteva tutti d’accordo, o quasi. Regole ed eccezioni erano di volta in volta deliberate, abrogate e deliberate nuovamente, in vivaci discussioni, fino a quando qualcuno, avverso al carattere conflittuale della questione, ne decretava la fine, con toni imperiosi, esclamando “Ora basta! Giochiamo!”  E il gioco aveva inizio. A renderlo per nulla ovvio, c’era qualcosa di inusuale, che tutti potevano utilizzare nel momento più opportuno. Qualcosa che avrebbe richiesto, a chi ne avesse voluto fare uso, il coraggio a svelarsi: sbucare dalla propria tana, alzare le mani al cielo, gridare a voce ferma: « Arimo ! »

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Arimo, nel lessico ludico, esprimeva un modo convenzionale di sospendere il gioco, un intervallo che poteva consumarsi in poche manciate di secondi o durare ore, in un nulla di fatto. Chi si assumeva la responsabilità di farvi appello, aveva delle buone ragioni, fondate, generalmente, dalla necessità di ridiscutere una regola, che, nelle migliori delle ipotesi, creava le condizioni per iniziare da capo il gioco. Alcune volte, invece, serviva a segnalare la scorrettezza di qualcheduno, col rischio – ahimè - di intavolare accesi ed inutili processi. Un verdetto senza assoluzioni sanciva il game over! In altre circostanze, non meno frequenti, chiamare “Arimo!” rappresentava una sorta di ultima chance, per sfuggire alla triste sorte della propria eliminazione dal gioco.

 

Arimorosso è il mio nome d’arte, non solo per gioco anagrammatico. ma proprio per quel moto di sospensione che ancora mi prendo, quando esco dai castelli del mondo e scendo nelle sue periferie. In queste circostanze capita che una parola, uno sguardo, una semplice finanche banale sfumatura della vita possa rivelarsi una durissima salita. La cima offre un panorama mai del tutto determinabile: il confine tra la vita e la morte, l’amore e l’odio, il finito e l’infinito si delineano in una dualità concreta dell’esistenza, che non si nega, in questo movimento sospeso, ai passi incerti, al fiato corto e alle cadute del funambolico cammino dell’esserci.

Perchè il gioco ricomincia, la vita chiama!

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Mario Rosso

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